IL MONDO NUOVO

Infine vennero gli anni della cava di sabbia, degli autocarri, del ruscello marrone a causa della terra lavata. La cava, a gestione famigliare, è stata la prima industria di un certo rilievo apparsa in Valle. La sabbia non era di grande qualità e se lasciavi lì il mucchio per alcune settimane, vi cresceva l’erba, ma a memoria d’uomo, la gente della Valle l’aveva sempre estratta da quella zona per le proprie necessità. I nuovi gestori erano arrivati con le scavatrici che con il tempo ingoiarono una gran fetta del bosco che separava Bettagno e Lelgio, due villaggi della Valle; poi incominciarono a salire lungo il fianco della montagna e il buco si faceva sempre più grande. Allora la sensibilità ecologica nei nostri paesi non si era ancora manifestata apertamente, ma qualcuno cominciava a domandarsi dove si volesse andare a finire con quello scavo e i pescatori si lamentavano per quel ruscello sempre nero di terra, che faceva sparire le trote per tutto il tratto del Capriasca, fino alla confluenza con il Cassarate.

Il rispetto per i corsi d’acqua non era mai stato un granché; la gente vi buttava i rifiuti da sempre, ma fino ad allora quel che si buttava era poco, perché molte cose andavano al maiale e il resto si teneva perché poteva tornare utile. Le lattine, quando non servivano per metterci i chiodi o per coprire i pali delle staccionate, venivano aperte e spianate e si inserivano fra le piode del tetto per tirare via le gocce che cadevano sul fieno, che oramai non c’era più nessuno capace di riparare questi nostri tetti di piode locali. Le bottiglie si riportavano al negozio che restituiva i soldi del deposito. La plastica non era ancora arrivata. Ma adesso il maiale ce l’avevano in pochi, la plastica imperversava e gli immondezzai erano diventati un vero problema finché, finalmente, anche quassù cominciarono a circolare i camion della spazzatura.

La cava continuò la sua attività fino all’inizio degli anni settanta quando si pensò di riempire il buco con i rifiuti in esubero. I forni non riuscivano più a smaltirli e occorreva sistemarli da qualche parte e si pensò anche alla cava, ma quando giunsero i primi autocarri con il loro fetido carico, la strada era occupata dalle donne, alcune si erano perfino stese sull’asfalto e i mezzi dovettero tornare indietro.

Ed intanto avevamo incominciato a vendere i terreni. Fare il contadino non era più un mestiere che potesse assicurarti un avvenire. Solo in qualche villaggio, dove i terreni si prestavano ad essere lavorati con le macchine, qualche famiglia continuò l’attività, ma anche loro cominciarono a guardare la terra con occhi diversi.

Un terreno acquistava valore se era in buona posizione o vicino alla strada e si poteva vendere bene.

Vendevamo per mettere il gabinetto ad acqua, la vasca e lo scaldabagno, da poterci finalmente lavare anche noi un po’ per bene, almeno una volta la settimana. Abbiamo venduto perché non avevamo altre possibilità per migliorare il nostro tenore di vita. Abbiamo nascosto le grosse travi e le assi sconnesse dietro a soffitti diritti e lisci, abbiamo ingrandito finestre, sostituito le vecchie mattonelle e gli scalini di pietra con quelli di cemento rivestiti col “novilon”. Volevamo che le nostre vecchie case assomigliassero almeno un po’ alle nuove che cominciavano a sorgere attorno al paese. Abbiamo asfaltato pure i selciati che rovinavano i tacchi delle donne. E in fondo sono state tutte esigenze legittime.

Adesso sappiamo che con i nostri acciottolati, le grosse travi storte, le mattonelle slabbrate abbiamo perso parte della nostra identità, ma allora, quelli che in quel vecchiume c’erano cresciuti a stento, volevano voltare pagina e cancellarne anche il ricordo.

E così abbiamo avuto anche noi il nostro benessere e intanto che cresceva il tenore di vita, aumentavano le automobili e le piazze dei paesi, dove la sera la gente si trovava, sono diventate posteggi. Abbiamo trasformato in posteggi anche gli orti e il posto del letamaio, e in garage il porcile, il pollaio o la stalla vicina alla strada.

Poi all’improvviso sui tetti sono apparse le antenne e i vecchi hanno smesso di raccontare. Era finito il tempo dell’ascolto attorno al fuoco, delle chiacchiere sulla scala del fienile e dei lunghi silenzi. Fino a quando in paese di televisori ce ne sono stati pochi, la gente andava in casa di chi li aveva ed era anche questo un modo per stare assieme, senza parlare per non disturbare. Poi ognuno ha avuto il suo e ha chiuso la porta.

Ora i nostri villaggi che per molti anni si erano svuotati, cominciano a riprendere vita, anche nei nuclei, altre case e stalle sono state riattate con maggior rispetto delle vecchie strutture di quanto abbiano fatto i nostri padri, ma i nostri villaggi si sono dilatati a dismisura, attorno dappertutto sono sorti i nuovi quartieri che li hanno saldati l’uno all’altro ed è diventato difficile riconoscerli.

Talvolta mi ritrovo a percorrere le strade di questi quartieri sorti su quelli che furono i nostri campi e prati: strade illuminate da lunghe file di lampioni, villette con recinzioni ed alte siepi, cancelli e citofoni, luci che si accendono al calore del tuo passaggio, cassette delle lettere con cognomi che non sono di qui e la scritta ”Niente pubblicità” così che non ricevono nemmeno il volantino che annuncia una festa in paese e parecchi rimangono dei gentili sconosciuti.

Ho provato a chiudere gli occhi per ricordare come dovevano essere un tempo questi luoghi, ma non ci sono riuscito.



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