IL MONDO VECCHIO

Erano gli anni dei tempi lunghi, della vita marcata dal tempo e dalle stagioni: il sole, l’acqua, la terra. Poi tutto ha cominciato ad andare troppo in fretta: il tempo e le stagioni hanno contato sempre meno; e anche il sole e anche l’acqua e anche la terra.

Del mondo vecchio, di ciò che c’è stato prima, quelli che come me sono nati negli anni quaranta, hanno fatto in tempo a vederne l’ultimo scorcio, a viverci dentro un po’ e forse proprio perché l’abbiamo guardato con gli occhi dell’infanzia, forse perché non ne abbiamo condiviso le fatiche e le rinunce, forse perché è durato così poco, ci sembra che fosse tanto bello.

E ora che anche questo secolo si è spento e gli anni più recenti diventeranno passato, mi sorprendo a ripercorrerne la parte vista o quella ascoltata.

Ascoltavamo, le sere d’inverno presso al camino e quelle d’estate sugli scalini della cascina ancora caldi di sole, storie antiche, storie ripetute, storie vissute.

Della zia Ida, sorella di mio nonno, si racconta che in gravidanza già molto avanzata, intanto che portava la gerla del letame in cima al ronco, lavorasse a maglia, a preparare calze per i figli già nati. Forse la maglia la faceva scendendo con la gerla vuota, ma questo serve a rammentarci quale fosse la vita delle donne nostre. I mariti facevano la stagione al di là del Gottardo e la famiglia ruotava attorno a loro, spesso energiche e robuste, quasi sempre fuori a falciare erba o a portare strame o nelle stalle a mungere vacche e a far nascere vitelli.

In casa c’era la nonna, la prozia, o qualche cognata non sposata che si assumeva i compiti domestici e si occupava dei vecchi e dei bambini. Rientravano le mamme ancora in tempo per finire un lavoro o per raddrizzare eventuali torti con i dovuti scapaccioni, ma anche a dispensare qualche briciola di affetto.

Il taglio della legna era il solo lavoro che non pesava sulle loro spalle: quello lo facevano gli uomini nel cuore dell’inverno. Se la prendevano con calma, partivano quando arrivava il sole e tornavano prima del tramonto, in tempo, se era il caso, per dare una mano nella stalla. La catasta rimaneva nella selva ad alleggerirsi un poco per diversi mesi, ma il trasporto toccava ancora alle donne. Un tratto non troppo lungo ognuna, scambiandosi le “cadole” con i figli grandicelli, mentre il nonno, nella legnaia, accatastava con la perizia dei vecchi muratori.

Raccontano che quando gli emigranti partivano, verso la fine di febbraio, le donne scendevano fino a Taverne che è sempre stata la nostra stazione naturale, con la valigia sopra la gerla, mentre gli uomini di osteria in osteria scivolavano a valle, sciacquando improbabili magoni.

Le donne giunte molto prima, aspettavano pazientemente, sferruzzando accanto alle gerle e concordando tra di loro le prossime fatiche. Giungevano gli uomini, alcuni già abbastanza allegri da non patire troppo il distacco, poi arrivava anche il treno. Si stringevano la mano “Alóra, scta ben!” “Scta ben anca ti!” quando addirittura non si davano del voi, ed era tutto. Baci e abbracci ne ha visti pochi la stazione di Taverne, ma diverse di quelle madri già crescevano nel grembo un’altra bocca da sfamare.

Si nasceva molto in autunno: venivano al mondo in quelle case già fredde, in un gran tramestio di donne agitate. Il tempo di mettere al mondo il neonato, una giornata di riposo, a volte solo mezza ed erano in piedi a preparare la cena, rattoppare pantaloni e portare la “coróbbia” al maiale. Se si poteva, venivano risparmiati loro i lavori nella stalla per qualche giorno, per non prendere l’infezione, ma ne morivano lo stesso.

Ed era proprio per questo che quando hanno introdotto la maternità al ricovero, le suore trattenevano le puerpere anche per tre settimane a mangiar pane bianco e a rimettersi in forze. Eravamo nel ’34 e fino al ’58 siamo nati quasi tutti lì, ed è stata una gran benedizione.

Quando sono nato in quella cameretta al pianterreno, la suor Maria ha detto “Oh che peccato, un maschietto, ma è morto!” e mi ha battezzato subito, “sub conditione” come si diceva, e si direbbe ancora, ma ci pensano in pochi. E già stava componendo il fagotto da affidare alla pietà cristiana, quando la signora Mina, che quassù ci ha fatti nascere a frotte, è intervenuta con energia e a furia di sculaccioni, acqua calda e acqua fredda è riuscita a strapparmi un flebile vagito.

E le poche volte che l’abbiamo incontrata, la mia mamma mi diceva “Devi ringraziare lei, se ci sei!” e io guardavo quella donna che mi sembrava alta e magra, più con timore, che con riconoscenza.



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