IL TERZO PONTE

Del primo ponte ricordo che aveva due arcate con dei contrafforti in pietra ricoperti di cemento, seguite poi da un muraglione che fungeva da diga; nel mezzo, il ponte faceva una curva. Ma il ricordo più vivo è legato a quel pomeriggio d’agosto del 1951, quando, con la nonna, siamo scesi a guardare il gran vuoto lasciato dall’alluvione. C’era parecchia gente da questa parte e anche dall’altra erano saliti da Pezzolo a vedere il disastro. Ricordo che qualcuno si era fatto avanti a guardare giù l’acqua negra e gli franò via la terra sotto i piedi, ma l’agguantarono in tempo.

Poi per sei anni ci lasciarono senza ponte; i militari avevano costruito una passerella di legno sulla quale potevano transitare le moto e noi costruivamo le capanne pressoché in mezzo alla strada. Furono gli anni delle moto, soprattutto perché nessuno ancora poteva permettersi l’auto, ma anche perché con l’auto si sarebbe dovuto fare il giro di Campestro su di una stradina impossibile. Le moto erano il nostro “gong” che annunciava la fine delle lezioni del mattino. A mezzogiorno e dieci passavano le prime e noi dicevamo alla maestra che era ora. La sveglia della maestra era costantemente in ritardo, benché la buona donna la tenesse girata su di un fianco, così che gli orari della scuola consortile di Odogno erano sempre approssimativi per eccesso.

Poi nel ’57 iniziarono la costruzione del secondo ponte. Noi andavamo già alla scuola maggiore. Ricordo che appena fu pronta la grande arcata di legno per sostenere il cemento armato, una compagna e io ci passammo sopra parecchie volte. Doveva essere una sera dopo l’orario di lavoro, perché altrimenti gli operai ci avrebbero sgridati. Poi ci misero i tondini di ferro e non era più così bello passarci sopra.

Quando il ponte fu finito a noi sembrava imponente e larghissimo, anche perché la strada sterrata che portava in Valle era poco più di una mulattiera. Lo terminarono alla fine dell’anno.

C’erano dei vecchi sulla Piana a guardar giù quel gran ponte di cemento e a chiedersi chi di loro ci sarebbe passato sopra per primo, nella cassa da morto. Toccò al povero Pedro, grande amico del nonno, un po’ parente della nonna. Le domeniche d’inverno, quando il nonno era a casa con le bestie, andavano ai Vespri per avere il pretesto di girare qualche osteria. Pagavano regolarmente i loro bicchieri prima di berli, per bere del proprio, come si usava allora. Arrivavano a casa che faceva notte, più gioviali del solito; la nonna brontolava perché nella stalla aveva dovuto andarci lei e loro ridevano. Il nonno appendeva la marsina alla spalla del pancone e le mie sorelle ed io frugavamo nelle tasche, certi di trovarci le stanghette di cioccolato.

Non è durato molto il secondo ponte, nemmeno quarant’anni. Con l’allargamento della strada era diventato stretto, l’aumento del traffico, il sale d’inverno, la malattia del cemento lo hanno fatto invecchiare in fretta. Lo hanno “sondato” con un’infinità di buchi e decretato incurabile.

L’hanno demolito con un’enorme pinza montata su di un trax. Stritolava quei miseri resti come un mostro del giurassico.

C’era un vecchio a guardare quello strazio. Era stato capo operaio nella ditta che l’aveva costruito. È venuto tutti i giorni, con il motorino, a bersi fino in fondo quel calice di malinconia.

E ora hanno terminato il terzo ponte, moderno, slanciato, bello anche, ma oramai non impressiona più nessuno. Quelli che un tempo passavano con le moto, ora hanno potuto seguirne tutte le fasi di esecuzione, hanno osservato con interesse le nuove tecniche di costruzione. Nessuno è salito alla Piana a guardar giù, perché gli alberi, cresciuti in questi anni, ne nascondono completamente la vista.

Chissà se qualcuno di loro s’è domandato a chi toccherà passarci sopra per primo?



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